Maria Cecilia Reyes

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Granchi Azzurri: Il mio primo racconto pubblicato

Il mio racconto Granchi Azzurri è stato pubblicato nel volume Lingua Madre Duemilaventi. E’ la prima volta che un mio racconto esce dal mio blog Xehismo. Blog che ormai ha più di 10 anni e più di 200 testi.

Questo racconto raccoglie storie della mia primissima infanzia della quale non riesco a ricordare niente, ma che mia nonna e mio padre ricordano come se fosse ieri. Granchi azzurri l’ho scritto a Barranquilla, la mia città nel Caraibi colombiano, e l’ho scritto direttamente in italiano, la mia seconda lingua. Forse per creare una sorta di distanza fra i fatti che racconto e la mia vita. Questi fatti sono ricordi che mia nonna e mio papà mi hanno raccontato durante il mio ritorno nella città.

Non so quando pubblicherò di nuovo i miei tesi personali. Alcuni posso considerarli anche buoni, tanti altri sono solo urla disperate, parole al vuoto, notti insonni.

Granchi Azzurri

Sono nata quando mancavano 5 minuti alla mezzanotte. Alle 7 del mattino hanno autorizzato l’uscita di mia madre con la neonata. Alle 8 del mattino mia madre, madre per prima volta, ha mangiato delle uova rotte con un po’ di sale e un po’ di pepe con mezzo bicchierino di succo d’arancia appena spremuta. Quello che mia madre non sapeva e non poteva neanche pensare, era che a casa la mattina del 27 di dicembre del ’88 non c’era niente da mangiare e non c’erano neanche due soldi per comprare qualcosa. C’era solo un’arancia che cominciava a marcire. Mio padre disperato per la triste situazione di non avere niente da dare da mangiare alla sua giovane donna che aveva appena partorito per prima volta, è uscito al giardino a fumare una sigaretta. Fra le lacrime che gli riempivano gli occhi vede che il morrocoy esce dalla sua tana, e dietro al fondo del piccolo buio vede il bianco delle sue uova. Con quelle due uova e l’arancia che rimaneva solitaria ha alimentato la sua donna. Mia madre non sapeva neanche che la settimana prima del parto, quando mio padre tornava da un lavoro vicino alle piantagioni di platanos, e attraversava la grande palude di Santa Marta, aveva sentito furia e impotenza quando un migliaio di granchi enormi azzurrissimi di pinze bianche ha deciso di attraversare l’autostrada e nessuna delle macchine che a quell’ora della notte passavano a 120 Km/h si è fermata, generando la strage più grande che mio padre abbia mai visto. Ma né l’idea della lontananza da se stesso e il corpo dei granchi che stavano per morire, né il rumore dei loro corpi spezzati sotto le ruote gli ha spezzato il cuore tanto come quello che ha visto appena è arrivato il suo turno di passare. Alcuni metri prima di arrivare sul luogo della strage, ha rallentato la macchina. Ha notato che ormai erano più i granchi schiacciati che quelli che passavano. Quando finalmente si è fermato del tutto, i fari della macchina hanno illuminato una scena che non se ne sarebbe più andata via dalla sua mente: i granchi che rimanevano si erano alzati con le ultime zampe e hanno alzato le pinze in modo di difesa. Come se potessero essersi difesi da lui, da noi. Con la macchina ferma e fermando le poche macchine che venivano dietro, ha aspettato che attraversassero gli ultimi e ha continuato. Un mese dopo la mia nascita, un giorno che mio padre è andato per lavoro nelle vicinanze di Mompox, lungo il fiume Magdalena, mia madre e mia nonna si erano messe d’accordo per portarmi alla chiesa di San Rocco. Il vento che arrivava dal nord pareva voler portar via il tetto della chiesa, le borse, i vestiti. Mia madre mi aveva avvolta bene e mi proteggeva con tutto il suo corpo dal forte vento. Quando sono arrivate alle porte della chiesa, il sagrestano che stava andando via chiudendo la porta, ha detto alle due signore che non potevano più entrare. Mia nonna, che aveva una missione da compiere, gli ha chiesto gentilmente di aprire la porta, perché erano partite da molto lontano solo e unicamente per raggiungere quella chiesa, perché in quella chiesa era custodito il Divino Bambino. Il sagrestano, a quel punto convinto, aprì la porta e le ha accompagnate. Arrivate alla presenza della grande statua, mia nonna mi ha preso in braccia, mi ha tolta tutti i vestiti e con entrambe mani mi ha alzata verso l’alto ringraziando il fatto di essere nata sana. Mio nonno aveva fatto costruire una piccola bambola d’oro che hanno agganciato al dito anulare della mano sinistra del divino bambino. In quell’enorme fattoria dove mio padre era stato quello stesso giorno saremmo andati a vivere, io, mio padre e mia madre, qualche mese più tardi. Ci saremmo poi fermati due anni. In quello spazio strappato alla selva c’erano alberi altissimi. I loro rami si stendevano larghi e lunghi verso il basso e verso i lati, e un solo albero poteva dare un’ombra di 40 metri di diametro. Alla stessa ora, verso le 5 del pomeriggio, arrivavano centinaia di scimmie urlatrici. Riempivano gli alberi che c’erano intorno alla casa, e scendevano a bere l’acqua che mio padre preparava per loro. A quell’età pensavo che con quei suoni potevo comunicare con i miei. Qualche mese dopo il mio primo compleanno mia madre è rimasta incinta per seconda e ultima volta, di mio fratello. Quando era al suo quinto mese, abbiamo dovuto viaggiare alla città in un piccolo aeroplano completamente meccanico che si muoveva con qualsiasi brezza, dall’alto vedevamo gli alberi dove abitavano le scimmie, abbiamo visto la palude dove un anno prima c’era stata una delle più grandi stragi di granchi della storia. Al ritorno dalla città, mio padre si è fermato a parlare con uno dei contadini vicini: erano preoccupati per diverse situazioni sospette accadute nell’area. Mia madre ha proseguito, con me per mano e mio fratello nella pancia. Quando è entrata in casa ha trovato una donna sulla quarantina, completamente nuda, che gridava di terrore con gli occhi spalancati. Con grande spavento, mia madre mi ha chiusa in camera e le ha trovato una maglietta lunga, ma la donna era completamente fuori dalla sua umanità. È scappata correndo e si è persa nella giungla. Mio fratello, che tutti pensavano sarebbe stato una bambina, a cui mia nonna paterna avrebbe suggerito il nome di Ramona, è stato un bambino. Una settimana dopo la sua nascita siamo tornati alla fattoria vicina al fiume dove abitavano le scimmie. Sono trascorsi quasi due mesi, quando una sera è arrivata la guerriglia. I lavoratori hanno avvertito mio padre e gli hanno suggerito di mandar via mia madre con i due bambini sull’aeroplano, ma lei si sentiva incapace di viaggiare da sola con una bambina di 2 anni e un bimbo di quasi due mesi. Mio padre ha preso la macchina ed è partito con la sua famiglia alle 2 di notte verso la città, 7 ore di strada suddivise attraverso una sosta in un blocco militare per riposare tranquilli prima di poter continuare. Uscendo dalla zona si sono sentiti degli spari e non siamo mai più tornati a Santana. Oggi, io e mio padre siamo passati dalla palude e abbiamo visto che le numerosissime mangrovie che la popolavano sono completamente morte. Rimangono i cadaveri bianchi di alcune di loro; di altre, le più vecchie, rimangono soltanto pezzi di tronchi solitari. Mi ha detto mio padre che quelle mangrovie erano piene di pappagalli colorati, scimmie di diversi tipi e che mai più si sono visti quei granchi azzurrissimi dalle pinze bianche.

22.04.2017